Una bella giornata per il clima

Guest post di A. Venturi

Stati Uniti e Cina, dice Barack Obama, hanno il dovere di guidare tutti gli altri Paesi nella lotta contro i cambiamenti climatici. Lo ha detto alle Nazioni Unite, davanti a una platea di capi di Stato e di governo riuniti in un vertice straordinario dedicato all’emergenza clima. Poi Zhang Gaoli, vice primo ministro cinese, gli fa il verso e offre al mondo una primizia: la Cina, fin qui riluttante a frenare la sua crescita impetuosa controllando le emissioni dei gas a effetto serra, riconosce l’importanza e l’urgenza del problema e s’impegna a una drastica riduzione del fenomeno entro il 2020. Cina e America sono i due massimi responsabili del surriscaldamento generato dall’effetto serra: senza il loro contributo il salvataggio del pianeta rimarrebbe un’utopia. Il doppio annuncio partito dal Palazzo di vetro apre dunque una prospettiva incoraggiante, proprio nel momento in cui una nuova consapevolezza si fa strada nel mondo. «Le Monde» riassume la situazione con un gioco di parole: è mutato il clima a proposito del clima.

Effettivamente il disastro ambientale non è più un’astrazione, uno slogan buono al più per concitate assemblee studentesche o per sparute manifestazioni di isolati profeti di sventure. Comincia a prenderne atto non soltanto il governo di Pechino ma anche l’opinione pubblica degli Stati Uniti, fin qui altrettanto indifferente al tema. Mentre l’aria ormai irrespirabile di Pechino deve avere fortemente contribuito alla conversione cinese, a convincere sempre più americani che lo spettro evocato dagli ecologisti si è ormai trasformato in una tragica realtà è stata l’attualità meteorologica: le inondazioni, gli uragani più tremendi che mai abbiano colpito gli Stati Uniti, tutti quei morti di Katrina e Sandy, le devastazioni costate miliardi di dollari. Ecco perché a Manhattan, due giorni prima del vertice Onu, la prevista folla di centomila persone si è moltiplicata per tre: una città nella città in marcia nelle avenues e una selva di cartelli con scritte come «Non esiste un pianeta B», o «Le foreste non sono in vendita». O ancora, evocando lo yes we can di Barack Obama, «Sì, possiamo, ma non facciamo nulla». Così i trecentomila celebravano la giornata mondiale consacrata all’ambiente in pericolo, e non si manifestava soltanto a New York. Altre centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza in decine di Paesi.
In un mondo ripiegato su se stesso per le tensioni economiche e finanziarie, oppresso da emergenze come l’Isis o ebola, la questione climatica ha atteso a lungo prima di irrompere nelle agende politiche. Paradossalmente la crisi produttiva non si è limitata a monopolizzare l’attenzione, distraendola da questo e da altri temi a torto o a ragione considerati meno impellenti, ha anche in qualche misura ridimensionato il fenomeno: meno produzione industriale e meno consumi uguale meno gas letali nell’atmosfera. Ma poi la freccia ha ripreso a puntare verso l’alto e le previsioni degli scienziati parlano di un punto di non ritorno ormai vicino. Oltre quel punto, uno scenario apocalittico: scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari, aree costiere e interi arcipelaghi trasformati in fondali marini, riduzione delle terre emerse proprio nel momento in cui la popolazione mondiale cresce a ritmi incalzanti.
Nonostante l’impegno di uomini come l’ex vicepresidente Al Gore, in prima fila nel denunciare la catastrofe incombente, l’opinione pubblica americana è stata a lungo refrattaria alle ragioni dell’ambientalismo, e dunque alla rivendicazione di energiche azioni per correggere la funesta sbandata del clima. Ancora pochi mesi or sono un sondaggio ha rivelato che soltanto il 29 per cento degli americani considerava la salvaguardia del clima una priorità politica. Eppure gli uragani, le siccità e le inondazioni hanno collocato questa emergenza sotto i riflettori dell’attenzione. E cominciano a influenzare anche gli strati alti della società. Lo conferma la notizia arrivata il giorno dopo la grande marcia: il Gruppo Rockefeller, che fondò sul petrolio la sua straripante fortuna, rinuncia a ogni partecipazione all’industria e al commercio dei combustibili fossili. E con Rockefeller una pletora di enti e fondazioni accademiche e culturali che depurano i loro portafogli, eliminando azioni e obbligazioni connesse con le energie inquinanti.
Chiamato personalmente in causa dai manifestanti di Manhattan, il presidente Obama ha dunque potuto rispondere due giorni più tardi, quando ha preso la parola alle Nazioni Unite. La seduta si proponeva di rilanciare il faticoso processo che produsse il protocollo di Kyoto, poi rimbalzato da un vertice all’altro senza che si conseguisse altro che generici impegni a ridurre le emissioni di anidride carbonica attraverso un complicato sistema di incentivi e compensazioni. La prossima tappa è la conferenza che si svolgerà a Lima in dicembre, chiamata a gettare le basi dell’accordo che si dovrebbe finalmente raggiungere a Parigi l’anno prossimo. Cioè nel tempo limite, secondo gli scienziati, prima che l’irreversibilità dei fenomeni renda inutile ogni sforzo.
Davanti ai delegati nel Palazzo di vetro Obama ha dichiarato di volere raccogliere la sfida. Ma il suo impegno deve fare i conti con i paralizzanti condizionamenti interni, a cominciare da quello della destra repubblicana, tradizionalmente ostile a iniziative che possano danneggiare il santuario del libero mercato. Forse confida che la decisione del Gruppo Rockefeller potrà compiere il miracolo di ammorbidire questa posizione. Per aggirare l’ostacolo rappresentato dalla difficoltà di ottenere il consenso parlamentare, Obama pensa a provvedimenti di carattere esecutivo, che l’Amministrazione può adottare senza scomodare il Congresso. Ma certo la necessità di sottrarre la materia al controllo parlamentare riduce di molto la portata delle misure possibili: per questo il suo impegno è apparso non proprio perentorio.
Eppure non sarebbe la prima volta che negli Stati Uniti un’iniziativa a tutela dell’ambiente partita dalla società civile impone scelte politiche di rottura. Qualcosa del genere accadde oltre mezzo secolo fa. Era il 1962 quando Rachel Carson affidò a un libro, Silent Spring (primavera silenziosa) la denuncia dei danni prodotti dall’uso indiscriminato dei pesticidi sintetici in agricoltura. Il movimento di opinione pubblica che ne seguì portò, nonostante la feroce opposizione dell’industria chimica, al bando dei prodotti più pericolosi. Oggi non si parla di pesticidi ma dei gas generati dalla combustione di materiali fossili e assorbiti sempre meno da un sistema forestale in rapido diradamento. La scommessa è sempre quella: intervenire prima che sia troppo tardi.
Di questa necessità si rende perfettamente conto quel variegato campionario di umanità che a tutte le latitudini e a tutte le longitudini ha richiesto a gran voce la grande pulizia del pianeta. Al centro della mobilitazione un contrasto che si denuncia ormai da troppi anni: da una parte il sempre più rapido incremento del fenomeno serra, sempre più anidride carbonica, metano e altri gas intrappolati nell’atmosfera e il suolo e gli oceani che si riscaldano puntando verso quella soglia fatale, oltre cui l'intensificazione dell’effetto diventa irreversibile condannando il pianeta. Dall’altra parte la perdurante indifferenza dei governi, divisi sulle responsabilità e sui necessari sacrifici, incapaci di concordare azioni condivise e incisive. Si tratta di un intervento su due fronti: diminuire la combustione di materiali fossili che produce i gas a effetto serra, combattere la deforestazione che riduce l’assorbimento di anidride carbonica e la produzione di ossigeno. Il problema sta in un’asimmetria storica: il compito di frenare le emissioni tocca anche ai Paesi a economia emergente, che si sentono penalizzati in uno sforzo produttivo che gli altri, l’Occidente sviluppato, hanno potuto compiere senza alcuna remora al tempo della prima industrializzazione. Ma l’urgenza della crisi richiede che tutti facciano la loro parte per ridurre le emissioni e salvare le foreste. È vero che questi interventi richiedono un forte impegno finanziario ma il loro costo, per quanto altissimo, è infinitamente inferiore a quello dei danni provocati dal suo progressivo deterioramento.
Nella giornata dell’ambiente si è presa di mira anche una nuova tecnica di produzione di energia, lo shale gas che si ottiene da certe rocce con il sistema della fratturazione idraulica. L’estrazione di questo gas è sempre più praticata in America, mentre in Europa viene quasi dappertutto ostacolata. Si fa notare che è doppiamente dannosa: sia perché sconvolge l’equilibrio dei suoli e può innescare fenomeni sismici, sia perché richiede l’impiego di grandi quantità di acqua. Eppure proprio con questa nuova fonte gli Stati Uniti aspirano a raggiungere quella indipendenza energetica che permetterebbe di fare a meno del petrolio mediorientale, politicamente così impegnativo. S’invocano le energie alternative: sole, vento, maree, idrogeno. Con la speranza che possano affermarsi come un business capace di fare concorrenza al petrolio e di sedurre non solo gli ecologisti ma perfino gli adoratori del libero mercato.

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